Rrugë të mbarë

L'Albania è un fidanzato lontano, di cui si custodisce la boccetta di profumo in un cassetto. Un viaggio nel Paese delle Aquile, di Elisabetta Borda

Tirana, capitale d'Albania Walla

Tirana, capitale d'Albania

La valigia è stata preparata come sempre all’ultimo momento, ovvero stamattina. E’ il primo giorno di caldo torrido, qui a Torino: era certo che l’afa avrebbe fatto la sua comparsa il giorno in cui avrei dovuto trasportare – senza aiuto alcuno – i miei venti chili di valigia (21,9 a esser precisi, e speriamo che al check-in chiudano un occhio sui chili in eccesso, ishallah), più un numero imprecisato di chili del bagaglio a mano.

Non so il vostro, ma il mio bagaglio a mano assume spesso la consistenza di un carico di piombo: riempito all’inverosimile, ho fatto viaggi albanesi in cui questo pesava più del trolley spedito in stiva. Ma non ditelo alla signorina in divisa che scruta con sguardo torvo le immense valigie di noi pellegrini, mentre sudati ci accalchiamo al suo bancone per il controllo dei biglietti.

Sono anni che non guardo più un tabellone per sapere dov’è in corso il check-in per Tirana: mi basta dare una rapida occhiata in giro. Abbondanza di oro e argento nei colori e negli accessori; una spessa collana con aquila occhieggiante tra i peli di un uomo sulla quarantina; l’inseparabile cellulare incollato a mani dalle unghie laccate; pance al vento, occhi bistrati, tacchi alti a elevare corpi belli, lineamenti accentuati e décolleté prosperosi (la vista delle ragazze albanesi riesce sempre a farmi sentire orrenda). Noto ancora: una grossa borsa trasparente contenente una coperta di ciniglia beige a fiori, sorretta da una simpatica signora in tailleur dorato e alti stivali rossi; disinvolti giovanotti con maglie di poliestere aderenti ad allegre pancette; un paio di donne incinte più un nutrito numero di bambini (con la frangia) e bambine (con lo smalto). Non ho dubbi: è lui. Mi accoglie il delicato sorriso di una signora anziana dal passo incerto, l’abito tradizionale e morbide trecce nere coperte da un foulard bianco. La accompagnano figlia e nipotina, che alla mamma si rivolge in italiano, alla nonna in albanese.

Mi mancava, la lingua albanese: quelle r morbide all’inglese, quelle dh zh sh th e nj, le ll e q che fatico a pronunciare, l’oscillazione della testa che accompagna l’assentire, gli ishallah, marshallah, bo bo bo che mi fanno scivolare ancora una volta, avash avash, nell’amata Shqiperia. Uscendo dal duty free vorrei che qualcuno mi sussurrasse il delizioso e gëzofsh, anche se sarebbe più opportuno ta marrsha të keqen: l’aria condizionata, non proprio clemente, mi ha già gonfiato le tonsille.

Una volta varcata la soglia dell’aereo sono già in Albania. Tutto mi è familiare, mi sento a casa, tranquilla; potrei prendere la residenza sull’Albanian, e trasferirmi sulla tratta Torino-Tirana. Il profumo dell’Albania, per me, inizia con la percezione dell’odore dei sedili di (finta?) pelle blu aviazione e dell’aroma del limone vaporizzato insieme all’aria condizionata, e termina con la fragranza del panino proshutë, djathë lopa e kastravec, servito con un gradevole dolcetto al limone. Fuori dall’aereo, l’Albania che amo ricordare profuma di carbone acceso per arrostire le pannocchie. E del detergente Mastro Lindo Bagno. Le scale dei palazzi in cui ho vissuto, degli hotel in cui ho soggiornato, le case di diverse amiche albanesi, i pavimenti dei këmbim valutor, di una macelleria EHW di Tirana e persino di una banca di Elbasan: tutto è pervaso dall’inconfondibile fragranza del signor Lindo.


Che, alla fine, non ho resistito ad acquistare per pulire anch’io la mia casa: lavo i pavimenti e mi sento in Albania. Questo paese è un fidanzato lontano, di cui si custodisce la boccetta di profumo in un cassetto: quando se ne sente la mancanza, si inspira forte quel profumo e sembra che sia lì ad abbracciarti. E poco importa se quel profumo non è altro che un detersivo per pavimenti.

Un ragazzo si offre di aiutarmi a mettere il bagaglio piombato sull’alloggiamento sopra il sedile, poi saluto un paio di signore conosciute nei viaggi precedenti e mi seggo. L’ultima volta che ho preso un paio di aerei (per Roma e per Londra) mi sono sentita a disagio: neppure uno a offrire il suo aiuto per riporre il bagaglio a mano; nessun passeggero col sorriso negli occhi a invitarti a scambiare due parole, ognuno immerso nella lettura di un quotidiano o nell’ascolto dell’iPod. Soffrite di solitudine? Prendete un volo per Tirana, o una nave per Durazzo. Scenderete con un paio di nuovi amici, di cui saprete (quasi) tutto, e loro tutto di voi; sono gli stessi che rincontrerete in altri viaggi, con i quali riprenderete il discorso interrotto in precedenza. Vi sentirete un po’ in famiglia, e molto meno soli.

Oggi, alla mia destra è seduta una giovane mamma che ha appena finito di allattare col biberon una bimba di otto mesi – più in là ce n’è un’altra che sta allattando al seno; alla mia sinistra, una cordiale donna sulla cinquantina dai capelli corvini e un dente d’oro, con la quale si intavola un interessante discorso bilingue sulle reciproche esistenze, che ci accompagnerà fino all’atterraggio. Di lei saprò il numero dei figli, con chi sono sposati o fidanzati, dove vivono e cosa fanno; di me saprà che sto andando in Albania a trovare il mio compagno, che è albanese e non è mai venuto a trovarmi: il visto turistico, infatti, in tre anni non gliel’hanno mai dato, pur avendo studiato in Italia, dove ci siamo conosciuti.

“Com’è bella l’Albania, dall’alto” esclama la signora all’approssimarsi dell’aereo al terreno, cui un giovane risponde pronto “Già, perché non si vede ancora da vicino”. Qualcuno accenna un applauso al pilota, anche se l’atterraggio è stato effettuato con la grazia di un bufalo in fuga e abbiamo tutti il sanduiç in gola. Tuttavia, l’applauso non è per il pilota: la gioia di essere di nuovo nella propria terra – comunque essa sia – erompe anche così, e fa scomparire, seppur solo per un momento, le rughe tra le sopracciglia, quei piccoli solchi che si formano presto per l’inquietudine e i troppi pensieri.

Il taxista che ci sta aspettando fuori dell’aeroporto è quello di sempre. Appena ci vede, scende dal Benz con aglio finto appeso allo specchietto e apre il bagagliaio, da cui saltano fuori: un sacchetto colmo di arance, una tavola degli scacchi, giornali vari, alcune bottiglie di plastica vuote e una busta di plastica piena di immondizia. Come niente fosse li sposta su un lato, sistema i giornali sul fondo e vi appoggia sopra i miei bagagli. Ska problem, no?

Come l’estate scorsa, anche quest’anno si è scelto di soggiornare vicino a Golem, in un palazzo che da due anni è diventato il nostro nido per le vacanze. Costruito – quasi davanti al mare e senza regolamentazione alcuna – da un uomo d’affari tornato benestante da un periodo trascorso nel sud dell’Italia, lo stabile ospita perlopiù famiglie che scendono da Tirana o dal Kosovo per godersi un po’ di mare. Poco importa, ai turisti (e se gli importa, non lo danno a vedere), che questo tratto sia spesso infestato da buste di plastica, chiazze d’olio e residui fognari: si può godere di tutto il resto.

Trascorrere le vacanze in Albania, per me, è come fare un tuffo nel passato, quando ci si poteva permettere poco, e quel poco ci rendeva felici. Il costo del soggiorno era accessibile, le sedie a sdraio modeste ma comode, ci si portava pranzo e merenda da casa (noi bambini contemplavamo il bar della spiaggia come un adolescente sospira la discoteca), la famiglia era unita e i miei genitori ballavano il liscio intorno al tavolo del tinello, col giradischi sulla sedia.


Non lontano da Durazzo, il nostro soggiorno ci costa 20 euro al giorno, le sdraio sono sciupate ma comode, le famiglie arrivano al mattino con capienti borse frigo, e noi balliamo la musika popullore intorno al tavolo della cucina, coccolati come bambini dal padrone del pallat, sempre attento che jemi mirë.

Oggi deve fare particolarmente caldo: sono le otto del mattino, e dal balcone vedo già un uomo passeggiare con la consueta canottiera azzurra arrotolata fin sopra l’ombelico, a rivelare un girovita da pigro frequentatore di palestre. La signora del negozio dirimpetto al palazzo
sta appendendo, in grembiule e ciabatte, i vestiti su un attaccapanni posto sul marciapiedi. In Albania la facciata inganna e questo negozio non fa eccezione, infatti vende di tutto: generi alimentari, ciambelle salvagente, pane preconfezionato nei sacchetti, sigarette, indumenti, materassini, frutta, verdura e schiere di bottiglie e bottiglioni d’acqua minerale, che stanno tutto il giorno sotto il sole cocente, alla faccia del “conservare lontano da fonti di calore e al riparo dalla luce solare”.

I polli stanno già cuocendo sul marciapiedi davanti al bar restorant vicino al negozio (che a me non sembra né un bar, né tantomeno un restorant), spuntato come un fungo dall’oggi al domani, e che offre qengj prushi, pula zgare, qofte zgare, tave balte, pilaf, patate me mish, berxholla, paidhaqe dhe birra me kriko. Il locale è però sempre vuoto. Mi viene il sospetto che sia a causa del kamarier, che deve essere il figlio della padrona, la stessa del negozio a fianco: ogni giorno lo puoi trovare mentre osserva annoiato i polli girare su se stessi, la sigaretta in una mano, nell’altra uno stuzzicadenti col quale si pulisce i denti a uno a uno, offrendo lo spettacolo ai turisti di passaggio – e a chi, come me, si affaccia dal balcone la mattina per godersi il panorama. Ma la spiaggia, situata quasi davanti al palazzo, offre spettacoli più interessanti.

I lettini, che qui chiamano shazllonë (presumo dal francese chaise longue), vengono dall’Italia usa e getta: il mio, di colore blu, porta la scritta “La Perla di Fregene”; quello del mio compagno è giallo a strisce bianche, e apparteneva a tali “Bagni Tenente”. L’ombrellone “Bagni Fabio”, verde e un po’ pericolante, ci viene aperto ogni mattina da un ragazzo biondo e ustionato a cui manca un molare. In Liguria, per rilassarsi in una spiaggia noiosa, claustrofobica e finta snob ti chiedono più di 15 euro al giorno. Nell’affascinante Albania vacanziera, paghiamo 200 lek al giorno, circa due euro: un prezzo onesto per liberarsi dei malumori accumulati durante l’inverno.

Il giornalista Beppe Severgnini ha scritto: “Dei viaggi rimangono soprattutto i colori. I rumori tendono invece a essere dimenticati”. Non dev’essere mai stato in Albania. Generatori, squilli di cellulari, autoradio a tutto volume; gli strilli dei conducenti dei furgoni in partenza, le musiche provenienti da un matrimonio, l’invito a pregare delle moschee: l’Albania è tutta un richiamo, qualche volta lieve, al più fragoroso (non sia mai che qualcuno non riesca a sentire). La spiaggia non esula dal fenomeno.

Sdraiata sul shazllonë, mi godo l’umanità che mi passa accanto. Venditori di ogni ben di Dio incedono tra i lettini sotto il sole rovente, ripetendo diverse litanie: “Dardhë, pjeshkë, rrush” “Karta Vodafonë, Albakarta, pije freskuëse, Neskafe” “Gazeta, revista, Kosova Sot, Bota sot” “Krem plazhi, vaj plazhj, patatina, cigare, letra bixhozi, dominò” “Urdhëroni kokoshka kikirika” “Hajdeni misra!” “Hajde peshore!”.

Passano anche un uomo che vende, a giorni alterni, libri e giochi di società, un ragazzo sommerso di palloni e vivaci ciambelle salvagente, un giovanotto alto e scuro di pelle con cesti colmi di finti uccelli cinguettanti, e ragazzini con zaino e cappello da baseball che offrono sigarette e accendini. Qui sembra che fumino tutti, anche i venditori minorenni; dei posacenere, neanche l’ombra.

Nella spiaggia albanese ci si può rilassare: tutto è a portata di mano, basta chiamare. E se all’improvviso, sdraiata sul lettino, ti ricordassi che hai bisogno di un soprammobile per la casa, ecco passare un carretto pieno di chincaglierie, trainato da un ragazzo rom con una maglietta dalla scritta “Sot NATO, nesër BE” (Oggi la NATO, domani la Comunità Europea). Siamo lontani dalle pattuglie di guardia anti vucumprà tristemente schierate tempo fa in alcune spiagge italiane, o dagli insulti che uno di questi ha ricevuto da ragazzini-bene, complici le risate dei genitori.

Noto lo stesso anziano dell’estate scorsa, fare avanti e indietro sul bagnasciuga col suo asino carico di frutta. Un rumore secco alle mie spalle e mi accorgo che un sandalo rotto calzato da un piccolo piede scuro sta schiacciando le lattine trovate nel bidone della spazzatura. Nessuno pare notare questa bambina che, spettinata e piccina, ripone le lattine in una grossa busta nera, insieme al suo accompagnatore. Come in Italia, anche qui l’indifferenza e la rassegnazione hanno preso il posto dello sdegno, in un clima preoccupante di assuefazione e apatia.

All’ora di pranzo le famiglie svuotano le borse termiche e bevono ghiaccio sciolto dalle bottiglie di plastica portate da casa. L’ultima volta che ci ho provato anch’io mi è venuta la colite. Decidiamo di bere qualcosa al bar sulla spiaggia. Bere një kafe è una metafora della vita: gli italiani lo trangugiano di corsa, gli albanesi lo sorseggiano per ore. Sarà che il tempo, in Albania, sembra scorrere più lento che altrove: gli albanesi lo sanno, e occupano per ore i tavolini dei bar, centellinando parole e bevande. Sto osservando la coppia di amici seduti al tavolo accanto al mio: da più di venti minuti, tra i due, è calato il silenzio. Le tazzine sono piene di caffè quanto il posacenere è colmo di sigarette spente a metà; l’uno sta controllando da un’ora il suo cellulare, l’altro continua a far roteare con un dito il pacchetto di Marlboro sopra il tavolo. Che il tempo passi, questo è certo. Resta il dubbio che questo sia il modo migliore per impiegarlo.

Io non bevo caffè, ma il mio tè lo finisco comunque in tre minuti. Il mio compagno sorseggia e io ingollo, lui gusta, io divoro (“Non fare l’italiana in Albania!”, mi rimprovera scherzosamente). Trovo la scusa che qui, come altrove, il çaj limoni è solubile, una caricatura del vero tè, e per di più servito in una tazzina poco più grande di quella dell’espresso. Riuscire a gustarsi per un’ora quei pochi sorsi di tè è un’arte che non ho ancora imparato. Lo scorso inverno, alla pasticceria francese di Tirana nel bllok, ordinai un tè. La cameriera mi chiese “Çaj o tè francese?”. Sperando di eludere il temuto tè solubile, optai per il tè francese. Arrivò con il tè Lipton, che è prodotto in Gran Bretagna, ma almeno mi fu servito in un’immensa tazza da caffellatte.

Tornati ai nostri lettini, come resistere al richiamo di “Erdhi petulla nga Tirana”, che giunge da un carretto in riva al mare? Ne assaggio un sacchetto alla fragola: buone, ma sento che finirò di digerirle nella notte. Meglio l’akullore leshi rosa shocking che mi colora la lingua, e mi sento come una bambina al luna park. Sarà per lo sguardo del mio compagno, che mi osserva con la stessa espressione di un genitore che ha portato la figlia al circo. Come non detto: vicino al mare vedo passare, nell’ordine, un’orsa marrone (“Fotografi me arushën!”), una scimmia bianca e grigia al guinzaglio, e un cavallo. Il pomeriggio scorre lento, condito ogni giorno dalle stesse musiche provenienti dai bar sulla spiaggia: Inna, Julio Iglesias, Edward Maya, Adriano Celentano e un simpatico Flori che per l’intera vacanza mi ha tormentata col suo “E ke ti një talent, dhe pse unë nuk po ta them, mos mbej si e veshtir, se më kupton ti shumë mirë”.

Il fenomeno più interessante resta però la suoneria del cellulare di una vicina di ombrellone: è consolante scoprire che i Ricchi e Poveri, col loro “Che confusione, sarà perché ti amo”, sopravvivono ancora, e al di là dei confini nostrani, sotto forma di (inquietante) suoneria. Ricordo con piacere un intero viaggio trascorso su un autobus che deliziava i suoi passeggeri con le canzoni di Toto Cutugno e Albano, e un pranzo consumato in un locale in riva al lago di Tirana, sulle note di “Lisa
dagli occhi blu” e “L’erba di casa mia”: l’Albania è un paese per nostalgici.

Ogni tanto mi diverto a sbirciare, sul quotidiano del mio compagno, la traduzione albanese che viene fatta dei nomi di noti personaggi italiani: Franko Fratini, Silvio Berluskoni, Valentino Rosi, Karlo Ançeloti e un indimenticabile Luçiano Moxhi. La lettura è allietata da una dolce musica popolare suonata da due ragazzi che, con clarinetto e tamburo, passano in riva al mare portando una melodia malinconica e struggente, molto affine all’animo degli albanesi. Passa anche un vecchietto con tamburello, che incede cantando “Napoloni” in versione Tullio de Piscopo: è meno struggente dei primi, ma ne giova il buonumore.


Il calare del sole porta il cielo a tingersi di arancione, con striature gialle, viola e turchese che, specchiandosi sull’acqua, nulla hanno da invidiare ai famosi tramonti africani. Ci lasciamo incantare dal sole che, divenuto una grossa palla di fuoco, scompare rapidamente all’orizzonte, insieme alle navi che paiono immobili (ma forse lo sono). La tranquillità di poter continuare a parlare sdraiati sui lettini anche dopo il tramonto – in Italia un bagnino seccato ci avrebbe già cacciati dalla spiaggia da ore – non ci fa accorgere che intorno a noi le famiglie stanno già godendosi la passeggiata serale sul bagnasciuga: profumati di doccia e pronti a comprare le pannocchie abbrustolite dalla signora in riva al mare, ci osservano con lo stesso sguardo incurante con cui scrutano i cani che compaiono a branchi tra gli ombrelloni chiusi. Decidiamo così di incamminarci verso il palazzo, attenti a schivare mozziconi di sigarette, lattine, semi di girasole, gusci di noccioline e buste di plastica abbandonati serenamente sulla sabbia, a poca distanza dai bidoni della spazzatura.

Mentre ci infiliamo in un negozio per fare la spesa, il rumore dei generatori ci avvisa che è andata via la luce. Il nostro negozio di fiducia è gestito da un basso ragazzino dagli occhi verdi che abbiamo soprannominato “The business boy”, tale è la sicurezza e la velocità con cui pesa, imbusta, calcola e maneggia soldi dalla mattina alla sera. Non l’ho mai visto sorridere, né mentre imbusta ogni pezzo in un sacchetto diverso (uno per le carote, uno per l’unica cipolla e uno per due pomodori), né quando saluta con un austero mirupafshim. Mi inquieta ma ne resto affascinata, infatti ci torniamo almeno tre volte al giorno (nonostante venda formaggio Philadelphia allo stato liquido e salame dall’aspetto sinistro – il banco frigo è sempre spento).

La sera capita di farsi la doccia e di cenare a lume di candela (cosa che da turista io adoro, ma il mio compagno, vivendoci, un po’ meno). Il ritorno della luce è accolto dalle urla di gioia del vicinato, e ricominciano le danze; ogni sera, infatti, i locali sulla spiaggia ci allietano – o ci affliggono, dipende dall’umore – con la loro musica a tutto volume. Provenendo da luoghi diversi, la musica da discoteca si mescola a “Oh Mari Maria faqet gurabija”, dando vita a un genere musicale interessante. I vicini stanno sul balcone come noi ad ascoltare la musica, non si sa se perché non amino frequentare i locali, o perché con quella musica non si riesce a dormire. Poi finalmente il sonno, interrotto talvolta da ubriachi che cantano e urlano nella notte.

I giorni scorrono veloci, come sempre quando si sta bene, e ci stiamo già dirigendo alla stazione degli autobus di Durazzo. Durante il tragitto noto il susseguirsi di una serie di locali dai nomi evocativi: Prishtina beach, Pavarësia, Restorant Peja, Vushtrria, Gostivar e Prizreni, nonché bandiere, asciugamani e gadget con la famosa aquila. I kosovari apprezzeranno. Nell’attesa che l’autobus per Tirana si decida a partire, mi godo gli ultimi richiami albanesi – “Tirana Tirona!” “Elbasani Elbasoni!” – che gli autisti di autobus e furgoni usano per attirare i passeggeri sul proprio automezzo. Decidiamo di salire sul nostro quando l’odore di urina e dei gas di scarico si fanno insopportabili (cioè subito). Non che l’autobus abbia un aspetto più salubre, ma almeno si riesce a respirare. Decidiamo di comprare qualche banana dal ragazzo alto e ossuto dallo sguardo malinconico, che sale su ogni autobus a declamare Ndo nje banane? Te mira i keni. In effetti sono molto buone: come la carne, anche la frutta, qui, è molto più gustosa che in Italia.

Una volta giunti a Tirana ci dirigiamo verso la fermata del Rinas Express, che scopriamo aver cambiato ubicazione. A Tirana tutto cambia alla velocità della luce: dove c’era un negozio di ottica, è comparso un Bukë special (qui tutto è special); dove c’era un internet point, oggi si trova una parrucchiera, senza clienti. Alla mia prossima vacanza sarà già stata sostituita da un pastrim kimik. I bar, invece, non chiudono mai, soprattutto quelli che pretendono di essere chic e ci riprendono se osiamo darci un bacio. Qui tutto cambia, tranne quello che dovrebbe essere cambiato.

Il pullman per l’aeroporto parte con dieci minuti di ritardo, e con l’aria condizionata che esce tiepida; il conducente decide così di lasciare la porta posteriore aperta. Viaggiamo con le tendine che ci volano in faccia e lo smog che infesta l’automezzo ad ogni fermata, confortati da una musica che sembra non essere la solita popullore.

Ed eccoci all’aeroporto Nënë Tereza, dove pesano la mia valigia: venticinque chili. Ammetto di ignorare il motivo per cui le mie valigie, al ritorno, pesino sempre di più, sebbene non sia avvezza agli acquisti. Sarà il fardello dell’Albania, che mi segue anche in Italia. “Togli qualcosa e mettilo nel bagaglio a mano”, mi suggerisce con gentilezza l’addetto al check-in. Con occhi supplicanti gli chiedo di lasciarmi almeno due chili: acconsente. In un angolo della sala apro la valigia, metto alcuni oggetti in una busta e ritorno soddisfatta al bancone, dove mi attende un secondo, candido suggerimento: “Adesso puoi anche rimetterli nella valigia, prima c’era il capo e non potevo passarteli, adesso è andato via e posso farlo”. Stupita, torno nel mio angolino a riporre la busta nella valigia che, tornata al suo peso originario, viene sistemata sul nastro trasportatore, mentre il solito addetto si rivolge al mio compagno in italiano: “La prossima volta pagherà i chili in più, però”. Malizia angelica e ingenuità sospetta: l’Albania è anche questo, tu lo sai, ma continui a cadere (angelicamente) nei suoi trabocchetti.

“Rrugë të mbare”, augura a noi dell’aereo, a voce alta, un uomo di mezza età seduto dietro di me. Mi giro e gli accenno un sorriso. Mossa avventata: non smetteremo di conversare su Italia-Albania-Berisha-Rama-punë-korrupsion fino alla comparsa del cielo piemontese. Grigio. Come ogni volta, lascio un paese delle aquile dal cielo azzurro e cristallino, per ritrovarmi in una Torino ammantata dalla foschia. Lo scorso Natale, a Torino c’erano 8 gradi, a Tirana era già primavera: mentre la sera del 31 mia madre cucinava zampone e lenticchie avvolta in due maglioni, io passeggiavo tranquilla in riva al lago senza giubbotto e mangiando un gelato. Per scaldarla, al mio ritorno le ho portato un grosso mazzo di mimose rigogliose e profumate: è un paese aspro, ma c’è sempre un modo per assaggiarne il retrogusto zuccherino.

L’aereo atterra sicuro sulle piste dell’Aeroporto di Torino, e come ogni volta la scena si ripete: cinguettii di cellulari che si accendono, e messaggi in arrivo, si librano nell’aria prima ancora che il carrello tocchi terra; qualcuno si alza per prendere il bagaglio quando l’aereo sta ancora sfrecciando sulla pista. Poi, la solita corsa al controllo passaporti, il consueto timore che la valigia sia rimasta a Rinas, l’apertura delle porte scorrevoli ed ecco il cielo plumbeo di Torino stagliarsi sopra di me: che gioia.

La fredda aria condizionata del pullman per il centro città, sparata su gelidi passeggeri, mi fa scivolare, stavolta shumë shpejt, nel mondo in cui sono nata. Appena il pullman lascia l’aeroporto, un ragazzo, già in astinenza delle sue albanesità, si mette ad ascoltare një kengë shqiptarë al cellulare, a tutto volume. Vedo che siamo in due ad avere mall e occhi lucidi.

Avevo percepito il mio attaccamento a questo curioso Paese circa sette anni fa. Era una notte di fine estate, il taxi mi stava accompagnando dall’aeroporto Nënë Tereza a Tirana. Stavo cominciando a rilassarmi. Mentre, verso la fine della corsa, la macchina imboccava l’attuale rruga Medar Shtylla, in lagja Komuna e Parisit, con il suo internet pieno di ragazzini, le buche nei marciapiedi che conoscevo a memoria, i grovigli dei fili elettrici stagliati nel cielo scuro e il negozio di alimentari ancora aperto, un solo pensiero aveva attraversato la mia mente stanca del viaggio: “Che bello, sono di nuovo a casa”. Se l’Albania ti seduce, ti troverai a difenderla come un albanese difende l’amore vero. Anche quando fa soffrire.

La notte non riesco a prendere sonno. Addormentarsi cullati dal silenzio è piacevole, ma farlo con “Oh Mari Mariana” è allegro: la mancanza di allegria, unita all’assenza del mio compagno, non mi lasciano dormire fino a notte fonda. La mattina vengo svegliata da un rumore fastidioso: “Ecco” penso, “ska drita prapë, non c’è di nuovo la luce”. Poi mi rendo conto che non è stato un generatore a svegliarmi, bensì il tosasiepi del vicino. Mi affaccio alla finestra: il condominio mi appare come ovattato nella sua perfezione, nelle scale tirate a lucido, nei dirimpettai che si salutano sbrigativamente, nell’assenza della piccola antenna satellitare che si affacciava al balcone dei vicini rumeni (rovina il decoro del palazzo, insieme agli stendibiancheria).

Nessun Flori che ammicca se më kupton ti shumë mirë, né tappeti stesi al sole sui muri di cinta o sulle scale. Tutto sembra privo di vita, una perfezione noiosa e monotona. Ci dev’essere un motivo per cui, nella classifica di Newsweek dei migliori paesi del mondo, gli albanesi (che figurano tra gli ultimi in Europa) hanno un’aspettativa di vita di 78 anni – appena uno di meno dei tedeschi – nonostante la polvere, la spazzatura, i grovigli e i politici. L’Albania è un luogo estremamente piacevole in cui trascorrere le vacanze, o soggiornare da stranieri. Per viverci, chiediamolo a chi è costretto a rimanerci sempre, che non mancherà mai di accogliervi con calore e un sorriso.

 


“È importante capire che la nostra vera appartenenza è quella alla famiglia umana. Oggi abbiamo questa grande opportunità di confrontarci con l’altro, col diverso, e da questo confronto si arriva a qualcosa di affascinante: la differenza è bella, ma si scopre che ci sono più cose che avvicinano, di quelle che separano e allontanano” (da un’intervista a Luis Sepulveda).

 


Elisabetta Borda ha vissuto, dal 2002, a Gramsh e a Tirana, lavorando nella cooperazione italiana. Durante quel periodo ha collaborato con la rivista Klan. Attualmente si trova in Cambogia, dove sta svolgendo un servizio di volontariato.

Per non perdere i nostri articoli seguiteci su Google News e sulla nostra pagina Facebook
Exit mobile version